Vaclav Havel ha compiuto da poco i cinquant’anni e già in quella occasione mi è capitato di riflettere su cosa significasse e cosa significhi Vaclav Havel per me, per la mia generazione e forse anche per altri. La generazione letteraria di cui faccio parte è più giovane di soli cinque, dieci anni. Non è molto, eppure da Vaclav Havel ci separa un’intera fondamentale esperienza. Vaclav Havel, nato nel 1936, è cresciuto ancora in parte nel mondo antecedente al trionfo del totalitarismo e di Auschwitz, mentre i più vecchi di noi hanno incominciato a percepire il mondo intorno a sé appena alla fine della guerra quando già tutto era cambiato.
Permettetemi di citare un esempio del tutto personale.
Appena finita la guerra mi sono inerpicato fuori dal nostro piccolo nascondiglio di famiglia e mi sono messo con grande meraviglia ad osservare il giardino. Era pieno del bianco delle fasciature di guerrieri russi che stavano distesi tra i rododendri e le azalee in fiore. Giorni interi. Solo di notte, quando il paesino andava a dormire, si mettevano a caccia. Dai giardini vicini predavano i nani di gesso. Poi questi guerrieri, come erano comparsi all’improvviso, così scomparvero.
Si lasciarono però dietro una notevole sorpresa: credo che al posto di ogni russo mi sia rimasto almeno un nano con un bel cappello rosso a punta. Sono rimasto a guardare quel giardino, a terra, completamente impietrito.
Mi è rimasta la stessa sensazione dopo il 1948 e dopo il 1968, con la sola differenza che i nani, che grazie ai russi erano comparsi in tutti i fondamentali punti istituzionali, erano vivi.
Ancora una volta però ci avevano fatto come un incantesimo. Mi permetto di sostenere che questa ricorrente esperienza dei nani è la nostra sensazione più interiore.
Siamo testimoni di come, due volte, ai nani si è dovuto adattare l’andamento di tutto il paese e di come gradualmente la maggior parte della gente si sia trasformata anch’essa in nani.
A queste regole del gioco Vaclav Havel non si è mai sottomesso e per questo in un panorama di nani era facilmente distinguibile.
Non era possibile non accorgersi di lui. Così mentre altri agili cittadini prendevano parte al gioco e facevano di tutto per guadagnarsi varie posizioni influenti, che li affrancassero dal mondo dei nani, affrontavano cioè il tutto – diciamo così – burocraticamente, da funzionari, in modo finalizzato, da esperti, Vaclav Havel ha preso le difese fin dall’inizio del “non finalizzato”, ma fondamentale: della lingua come strumento che serva prima di tutto a conoscere la realtà. Ha sempre richiamato l’attenzione sul fatto che le frasi fatte, che penetrano nel linguaggio naturale, lo trasformano in antilinguaggio che oscura e annebbia la realtà e impedisce quindi la conoscenza.
Insieme a Milan Kundera, che all’epoca attaccò il lirismo ceco in quanto sintomo di immaturità letteraria, sono stati probabilmente gli unici due atti visibili in senso letterario – filosofico nella Cecoslovacchia degli anni Sessanta, la cui validità duri ancora oggi.
Vaclav Havel infatti sapeva bene che finché non ci lasciamo espropriare della lingua, finché non ci lasciamo costringere in schemi linguistici che portano poi sempre ad un pensiero schematico, non possiamo essere espropriati neanche del passato: non sarà possibile sostenere che tutto il corso del mondo volgeva solo ad essere diretto dai nani. Con ciò Vaclav Havel ha saputo ergersi contro la sostanza del totalitarismo che – cito la Arendt – “uccide le radici della società”.
La difesa della lingua è in effetti anche il soggetto di Festa agreste, la prima pièce teatrale di Havel. Racconta lo stesso Havel in Interrogatorio a distanza[2]: «II protagonista, Hugo, esce nel mondo – come l’Honza delle fiabe, che va alla ventura (archetipo di viandante) – e si incontra in esso con la frase fatta, in quanto suo principio centrale. Pian piano quindi si adatta alla frase fatta (“impara”), si identifica con essa; quanto meglio si identifica con essa, tanto più in alto sale; quando è in cima, appare evidente che è del tutto sparito e si è perso nella frase fatta. Il lavoro finisce con Hugo che va a far visita a se stesso. Il suo orientamento verso la frase fatta lo ha condotto da se stesso come dalla migliore incarnazione di quella. Andando a farsi visita, si è perso definitivamente».
In un’altra pièce di Havel, L’avviso, il linguaggio artificiale delle frasi fatte o per rimanere alla nostra parabola, il linguaggio dei nani ha addirittura un nome: ptydepe.
Oggi, a distanza di vari anni, sembra che Vaclav Havel non abbia scelto questo tema del tutto volontariamente, sembra quasi che sia stato il tema a scegliere lui ed a costringerlo ad una attività non solo letteraria. Vaclav Havel ci ha probabilmente mostrato in pratica ciò che nella teoria è stato formulato dal filosofo Jan Patocka[3]: la grandezza di un personaggio non si riconosce dalla grandezza dei traguardi che si è posto, bensì solo da come ha affrontato i compiti che gli hanno posto di fronte l’epoca e gli altri.
Talvolta si ripete che, soprattutto in Occidente, l’incommensurabile effetto della grandezza viene sostituito con la grandezza misurabile dell’effetto. Vaclav Havel non è senz’altro un collezionista di record misurabili. Si fa strada piuttosto con una forza non misurabile. Non è però una forza indifferente se la si riconosce sin da qui. Sembra quasi che Vaclav Havel continui inutilmente a rischiare, lottare, difendere qualcuno, portare avanti qualcosa e con ciò ci dimostra praticamente che un senso vero, profondamente sentito e compreso può esserci solo nelle cose che sembrano inutili in partenza, senza valore, che non convengono.
Vaclav Havel con i suoi atteggiamenti indica che forse non c’è più tempo, che bisogna rinunciare al calcolo dei nostri sacrifici, giacché il vero eroismo è più grande dell’eroismo calcolatore e calcolabile. Non si può insomma dire: ancora questi due, tre sacrifici e poi abbiamo il progresso tanto auspicato. Per il futuro a cui teniamo bisogna essere disposti ad affrontare sacrifici senza chiedersi se convengono.
Forse proprio qui, in questo nuovo rapporto dell’uomo col sacrificio, che Vaclav Havel dimostra in modo così evidente, è insita probabilmente la sua lezione morale, e il fatto che questo suo modo di essere abbia vinto sul comportamento calcolatore delle strutture ufficiali, aggiunge anche alla vittoria di Havel una nuova dimensione. Si tratta infatti della vittoria di una esperienza e di una esistenza personale umana sulle ideologie e sugli esperti.
In questa tradizione vissuta di società parallela, che Havel personifica con tutta la sua vita, si può forse anche cercare l’embrione del prossimo universalismo europeo che non guarderà solo al lucido ed abbagliante futuro (economico o ideologico), ma controllerà continuamente anche la propria ombra, le proprie ombre. Così, forse, l’uomo tornerà anche alla più vecchia tradizione di vita europea in tensione tra l’immagine e la realtà.
Finora Vaclav Havel si è interessato piuttosto dell’immagine, ora come presidente ha a che fare con la realtà, ma come mi ha detto lui stesso a conclusione di Interrogatorio a distanza: “Ho il sospetto che da una qualche parte, in quella più profonda di me, tutta questa vita paradossale mi diverta terribilmente[4]“.
Note:
[1] testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 22.11.1990 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura. Karel Hzvidala, giornalista, è ritornato in Cecoslovacchia nel 1990 dopo dodici anni di esilio in Germania.
[2] Vaclav Havel, Interrogatorio a distanza, Milano 1990, pag. 194.
[3] Jan Patoéka (1907 1977). Filosofo. Fondamentale nella sua formazione filosofica è stato il contatto con Husserl e la fenomenologia. Dopo la guerra perse il posto all’Università Carlo IV, lavorò come bibliotecario, riassunto nel 1968 venne definitivamente licenziato nel ’72. Fu uno dei primi tre firmatari di Charta 77. Morì durante un interrogatorio della polizia.
[4] Op. cit., pag. 203.